Ogni volta che mi trovo a camminare in un bosco da sola, la natura mi invita a un atteggiamento di apertura e ascolto che riesce sempre a trasformarsi in un viaggio interiore. Gli alberi che mi circondano, con la loro fermezza rispecchiano i miei stati d’animo e toccano, a volte dolcemente altre volte in modo più diretto, le corde delle mie emozioni, facendo risuonare una melodia inaspettata che non sempre riesco a descrivere con le parole. I giapponesi la chiamano daishizen, “Grande Natura”, il luogo dove tutto vibra in un’unica vitalità ed è possibile cogliere insegnamenti preziosi, attraverso una visione che va oltre le apparenze per risvegliare in noi nuovi modi di vedere e affrontare le cose.
Approfittando di qualche giorno di riposo in solitaria al mare, scelgo di fare una passeggiata lungo una strada che dopo numerosi gradini e mulattiere abbandona gradualmente le abitazioni per raggiungere un sentiero che si immerge in una lecceta.
Dopo parecchio tempo a camminare in salita in pieno sole, la sensazione che provo nell’entrare nel bosco è in primo luogo di grande sollievo, come varcare la soglia di una casa accogliente e protettiva. Sento subito il bisogno di fermarmi e rimanere un momento in ascolto del battito del cuore accelerato dalla fatica e del sudore che cola sul mio viso accaldato e che appiccica i vestiti alla pelle. Nel ripartire il mio passo si fa più lento e mi accorgo di sorridere, pensando che era esattamente lì che avevo avuto fretta di arrivare.
Abituata ormai a cercare con una certa frequenza la pace nei parchi di città, con i loro vialetti, gli alberi e i cespugli disposti in modo ordinato ma resi caotici dal vocio e dallo scarso rispetto delle persone che li frequentano, osservo da subito che il bosco “vero” è l’esatto contrario: gli alberi cresciuti in modo casuale e il terreno disconnesso danno all’ambiente un senso di caotico disordine che attraverso i miei occhi percepisco come un’affascinante armonia selvaggia, anche grazie alla quasi totale mancanza di esseri umani, salvo qualche incontro sporadico. Alla mia sinistra echeggia lontano il rumore dell’autostrada e alla mia destra a tratti si intravede tra i rami il blu del mare che si fonde con il cielo. Procedendo passo dopo passo, ciò che rapisce in modo totalizzante la mia attenzione sono gli esseri viventi che abitano questo luogo: i lecci.
Nonostante pendano tutti in direzione del mare, sono così diversi gli uni dagli altri nel loro diramarsi del tronco sottile, che subito mi viene alla mente il paesaggio di danza che amo guardare, quello dei bambini a scuola che si muovono rispondendo agli stimoli musicali con un’espressività liberata e che con tanto sforzo sogno di far riscoprire alle persone adulte attraverso la danzaterapia. Solo io la vedo la bellezza nella diversità? Solo io lo vedo l’equilibrio nel caos delle forme di corpi e di rami? Tento di catturare ciò che osservo con lo smartphone ma l’impresa pare impossibile e le immagini attraverso il filtro della fotocamera non rispecchiano affatto la luce percepita dai miei occhi. Mi succede spesso di afferrare il telefono spinta dal desiderio di catturare un’immagine ma forse ciò che voglio conservare è lo stato d’animo del mio sentire, quella sensazione di piacere che provo nel lasciarmi pervadere nel corpo e nel cuore che passa attraverso la vista e che in un attimo sembra racchiudere tutto.
A ben guardare il fascino della lecceta sta anche nel suo aspetto più cupo e in qualche modo anche un po’ sinistro, per il colore scuro delle foglie, i tronchi caduti che spesso mi costringono a cambiare strada e la pendenza degli alberi che li rende apparentemente precari nel loro equilibrio, come in tensione verso una perenne ricerca di qualcosa al di fuori di sé. Improvvisamente nel leccio rivedo qualcosa di familiare: nel suo corpo lungo, le braccia storte, le spalle un po’ in su e il peso in avanti; nei piedi che danzando cercano radici nella terra mentre le fronde svolazzano immerse nei pensieri; nei rami spezzati che giacciono a terra come sculture commemorative in attesa di integrarsi nuovamente nel paesaggio; nell’aspetto più cupo di tristezza e paura ma sempre alla ricerca di bellezza e della possibilità di migliorarsi. Il leccio è uno specchio che mi con-muove con la dolcezza di una folata di vento, mi invita con il sorriso ad accogliere quelli che considero difetti, suscitando un sentimento di con-passione nei confronti di me stessa, di ciò che sono, ciò che desidero essere e del mio sforzo di rialzarmi quando cado.
Tutte le volte che entro in un bosco ne esco sempre un po’ cambiata, affaticata nel corpo ma immensamente grata per le sensazioni e le emozioni vissute, che con nuova linfa rinnovano i pensieri e mi donano un piacevole stato di presenza, accoglienza, gioia e benessere.
Ho scoperto che il leccio ha delle foglie caratteristiche che mutano con il tempo: da giovani hanno un aspetto più spinoso per proteggersi dagli animali mentre con l’età, quando il tronco dell’albero è più alto, si addolciscono perdendo in parte la dentellatura. Mi volto indietro per dare un rapido sguardo a tutta la strada percorsa fino ad oggi e penso che potrebbe essere il momento giusto per iniziare a limare le foglie.