Dieci minuti di silenzio

Cosa succede se provo a fermarmi ogni giorno per 10 minuti?

Non importa dove decido di stare, al chiuso o all’aperto, seduta su uno zafu, su una sedia della cucina o una panchina del parco. Il silenzio è una conquista quotidiana, un sentiero dalla meta sconosciuta che può tornare indietro o affacciarsi su un dirupo, oppure rivelare tracce e oasi di autentica quiete. Dipende dalla mia capacità del momento di accogliere quel che accade.

Il tempo del silenzio è un’occasione per accorgermi di quanto il pensiero sia prepotente e chiassoso, per osservarlo da fuori e provare a dirgli con gentilezza: “shhhh, ascolta”. Il ticchettio dell’orologio del soggiorno o delle gocce della pioggia, le voci della strada e i rumori dei lavori in corso, il suono dei clacson, delle campane di una chiesa o il cinguettio degli uccelli e il fruscio delle foglie. Non c’è alcuna differenza in un silenzio che accoglie.

Con apertura incontro i maestri. Il gatto che si aggira nella stanza scricchiolando i suoi passi sul parquet, quando mi fermo trova un luogo di quiete e mi mostra la sua presenza immobile. Gli alberi mi invitano a mettere radici e a lasciare che soffi leggeri muovano la mutevolezza delle cose come foglie al vento. La natura usa la sua bellezza per invitarmi a sostare, per contemplare un tramonto o una cascata ma anche un filo d’erba che ha vinto l’asfalto.

Se riesco a chiamare per nome un pensiero per quello che è, il suo passaggio è una stella cadente e lascia spazio ai rumori di dentro: il battito del cuore e il respiro. Come si muove il mio respiro? (Leggi Ricomincio dal respiro) Scorre libero o trova strade sbarrate? È alto nel torace o basso nella pancia? Non c’è bisogno di fare nulla perché il respiro sa, è la porta tra il dentro e il fuori. Respirando scopro che tra l’aria che entra e quella che esce c’è il tempo del trattenere, dell’assimilare, del trasformare, ma se sono abitata dall’ansia questo non accade. Se accolgo e paziento arriva un ampio sospiro o uno sbadiglio che apre una fessura. Quando finisco di espirare c’è un tempo di quiete. È qui che personalmente riesco a percepire lo spazio delle infinite possibilità: il vuoto che tutto contiene.

Quando il transito dei pensieri tace il corpo parla, mi ricorda la presenza della forza di gravità ma anche il suo stare tra la Terra e il Cielo. A volte vorrei assecondare la prima, piegandomi in avanti e lasciandomi andare per sentire sollievo lungo la schiena; altre volte le radici mi spingono verso l’alto con leggerezza e un filo invisibile mi sostiene e mi collega con qualcosa che non c’è. Nella vitale staticità arrivano segnali dal corpo: pruriti, fastidi, dolori. Come rispondo alla richiesta d’attenzione? Non sempre canalizzare il respiro nel punto dolente funziona. Ecco di nuovo il pensiero: quanto posso sopportare un dolore?  E in generale, come si convive con la sofferenza nel quotidiano? Priva di risposte, la questione galleggia intrinseca nel mio stare ferma accompagnata dal respiro. “Spesso si pensa che la soluzione al dolore sia altrove – scrive Chandra Candiani nel suo saggio sull’arte della meditazione – ma è nel dolore la soluzione del dolore, sentendolo, abitandolo”.

Qual è lo stato d’animo di questo momento? Nel silenzio, anche le emozioni una volta spogliate dei pensieri che le scaturiscono sono nuvole che cambiano forma in balia dei venti. Posso osservarle e riconoscerle con la curiosità di un bambino alla stazione che guarda passare un treno in transito, o salire sulla carrozza e vedere dove mi porta.

Il timer suona sempre dopo 10 minuti ma quanto durano dieci minuti di silenzio? Una vita o un attimo, dipende. Il silenzio è la relatività del tempo, può essere uno spazio di scoperta o di tortura. Dipende dal coraggio e dalla curiosità di incontrare sé stessi, senza giudizio né aspettative. Scrive lo psichiatra Eugenio Borgna in un recente saggio dedicato proprio all’ascolto del silenzio: “Se non amiamo il silenzio è perché non sappiamo cosa dire, cosa domandare, cosa rispondere alla voce che chiama dalle misteriose lontananze della nostra anima”.

Personalmente praticare il silenzio è gettare un’ancora nel mare della quotidianità, perché esso è maestro del riordino, una finestra sulla realtà delle cose, un accesso segreto a luoghi misteriosi e sconosciuti, ma anche un gioco infantile che posso fare con me stessa con la curiosità di chi affronta un’avventura. Il silenzio è necessario. Scrive ancora Borgna, “solo rientrando nella nostra interiorità, nel silenzio e nella solitudine che la contrassegnano, è possibile sfuggire al fascino inquietante della indifferenza e della noncuranza, dell’egoismo e del deserto emozionale”. Anche quando ho paura, il silenzio mi invita ad affidarmi a ciò che so e che non so.


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